TESINA ESAME DI STATO 2009/10

 

Alunno : Capasso Domenico

 

"Sviluppo ed innovazioni tecnologiche : dalla seconda rivoluzione industriale ai giorni nostri"

 

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STORIA



La Seconda Rivoluzione Industriale e l’inizio dell’era tecnologica







  La seconda Rivoluzione Industriale




La seconda Rivoluzione Industriale

Introduzione
Lo sviluppo dell’industria, iniziato nella II metà del Settecento (Prima rivoluzione industriale), continuò per tutto l’Ottocento e proseguì, poi nel Novecento. Tuttavia, nella seconda metà del XIX secolo l’industrializzazione prese caratteristiche diverse e più complesse rispetto a quelle del secolo precedente. Gli storici chiamano questa nuova fase “Seconda industrializzazione” o “Seconda rivoluzione industriale” .

La Seconda rivoluzione industriale si caratterizzò e si differenziò dalla prima per vari aspetti: innanzitutto, mentre dapprima l’industria si era concentrata in certi paesi e in certe regioni (Europa occidentale e Stati Uniti), ora si diffondeva in quasi tutto il continente europeo e anche in paesi periferici come la Russia e il Giappone. Inoltre la prima fase dell’industrializzazione era stata condizionata dalla tecnologia del ferro e del carbone; ciò aveva favorito quei paesi che possedevano ricchi giacimenti delle due fonti energetiche, come l’Inghilterra, il Belgio, la Francia e la Germania. Il suo prestigio si fondava sulla superiorità nel campo scientifico e tecnologico e sulla potenza industriale e capitalistica, rafforzato in seguito alla scoperta di nuove fonti di energia, come il petrolio e l’elettricità, all’utilizzo di nuovi sistemi di comunicazione e di trasporto, al dominio incontrastato del commercio mondiale.

Nella seconda metà dell’Ottocento, invece, le scoperte, le invenzioni resero più agevole l’industrializzazione a paesi come l’Italia o il Giappone, sprovvisti di risorse minerarie, ma ricchi di cultura tecnica, di capacità professionali, di desiderio di emergere. In particolare, in questo periodo “l’energia elettrica” sostituì il vapore come forza motrice; di conseguenza si affermò l’industria produttrice di energia elettrica. Nacque il “motore a scoppio”, si perfezionò, con nuovi tipi di altiforni, la produzione dell’acciaio. Sorsero le aziende elettromeccaniche e chimiche.

Mentre la prima rivoluzione industriale si era distinta per il moltiplicarsi delle unità produttive, prevalentemente con pochi lavoratori, la seconda si caratterizza per la tendenza alla crescita delle dimensioni delle aziende e della loro incidenza sul mercato. L’affermazione e la concentrazione di queste grandi imprese provocarono l’introduzione di nuove forme quali il cartello, il trust, holding. Un altro aspetto che caratterizza la seconda rivoluzione industriale è il progressivo prevalere del capitalismo finanziario rispetto a quello industriale, con l’intrecciarsi di interessi tra le banche e le industrie. I decenni della seconda rivoluzione industriale furono segnati da un intenso sviluppo delle comunicazioni;gli uomini potevano finalmente spostarsi rapidamente dovunque. La seconda rivoluzione industriale trasforma anche la società di fine Ottocento e con essa ci si avvia verso la società di massa; nasce una nuova classe sociale, con gli operai di fabbrica che si oppongono alla borghesia, che rimane la classe dominante anche in questo periodo.

Oltre che per le grandi innovazioni tecnologiche e scientifiche, la seconda rivoluzione industriale si caratterizza in modo incisivo rispetto alla prima perché più rapidi furono i suoi effetti, più prodigiosi i risultati che determinarono una trasformazione rivoluzionaria nella vita e nelle prospettive dell'uomo. Avvenimenti di rilievo prima ampliati nello spazio e nel tempo ora si concentrano in uno spazio temporale ristretto che rende più veloce e animata la vita dell'uomo. Alcuni storici hanno osservato come la rivoluzione dei mezzi di trasporto abbia modificato non solo la geografia fisica delle zone dove essa si è verificata, ma anche la "geografia mentale" degli uomini, il loro modo di percepire lo spazio e il tempo. Inizia quel fenomeno che porterà, per effetto della contrazione dello spazio e del tempo, conseguenza dei nuovi più veloci mezzi di trasporto e comunicazione, alla globalizzazione dei mercati, delle tecnologie e dei linguaggi, e in definitiva all’accelerazione della storia dell'uomo.



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La ”grande depressione”: sovrapproduzione e calo dei prezzi
La seconda rivoluzione industriale ebbe, tuttavia, inizio con una improvvisa crisi di sovrapproduzione, caratterizzata da una prolungata caduta dei prezzi. A partire dal 1873, infatti, la grande crescita economica subì un rallentamento: l’economia mondiale entrò in un periodo di difficoltà che durò, pur con vari momenti di ripresa, oltre vent’anni, sino al 1896. I contemporanei ed alcuni storici hanno chiamato questo periodo “Grande depressione”.

L’economia capitalistica aveva già conosciuto momenti di crisi nel corso dell’Ottocento, ma di dimensioni più limitate o legati a fattori delimitanti nel tempo, come nel 1847 a seguito di un ciclo di cattivi raccolti. In questa circostanza il fenomeno fu invece assai più esteso e duraturo e riguardò sia l’industria sia l’agricoltura. Il settore agricolo aveva realizzato, negli ultimi decenni dell’800, importanti progressi tecnici. L’uso sempre più diffuso dei concimi chimici, i primi parziali esperimenti di meccanizzazione, l’estensione delle opere di bonifica e di irrigazione resa possibile dai progressi dell’ingegneria idraulica, l’introduzione di nuove colture e di nuovi più perfezionati sistemi di rotazione resero possibile accrescere la superficie coltivabile e aumentare i rendimenti dei terreni. Questi progressi interessavano , però, solo determinati paesi e determinate aree geografiche: l’Inghilterra, la Germania, il Belgio, i Paesi Bassi, la Danimarca e, in minor misura, la Francia, i paesi scandinavi e alcune regioni dell’Italia settentrionale, dell’Austria e della Boemia. In quasi tutta l’Europa orientale e in buona parte dell’area mediterranea la situazione era molto diversa: la persistenza del latifondo di origine feudale, delle antiche gerarchie sociali e della povertà dei coltivatori costituivano ostacoli insuperabili per l’innovazione tecnologica e per gli investimenti sulla terra.

La crisi del 1873 fu un colpo durissimo per tutta l’agricoltura europea ma soprattutto per quella più arretrata. La crisi fu provocata dalla concorrenza dei prodotti agricoli, in primo luogo i cereali, provenienti dalla Russia e dai “nuovi granai” del mondo: Stati Uniti, Canada, Argentina, Australia, India, Nuova Zelanda. Tutti paesi che potevano produrre e vendere a prezzi inferiori a quelli europei perché disponevano di enormi estensioni di terreno coltivabile, di manodopera a basso costo o, nel caso degli Stati Uniti, di un’agricoltura meccanizzata e altamente produttiva.

Negli anni cinquanta - sessanta, l’espansione del mercato aveva incentivato gli investimenti nel settore agricolo sia da parte dei paesi europei,sia in quelli d’oltreoceano: ma l’alto costo dei trasporti aveva fornito ai produttori del continente una protezione adeguata. Con lo sviluppo delle ferrovie e della navigazione transoceanica a vapore questa barriera crollò e milioni di tonnellate di cereali invasero il mercato agricolo europeo, provocando un ribasso continuo dei prezzi. A partire dagli anni ’79-80 i prezzi dei prodotti agricoli calarono bruscamente e ciò provocò la rovina di molte aziende agricole piccole e grandi e quindi disoccupazione, fame, miseria nelle campagne. L’occupazione in agricoltura si contrasse e milioni di contadini europei dovettero prendere la via dell’emigrazione oltreoceano.

La crisi riguardò anche il settore industriale. Alla base del fenomeno stava un eccesso dell’offerta di beni rispetto alla capacità di assorbimento del mercato; essendo la domanda di beni di consumo ancora ridotta, poiché la maggioranza della popolazione destinava alla pura sussistenza la quasi totalità del proprio reddito, si entrò in una fase caratterizzata da difficili sbocchi di mercato, in altri termini gran parte dei prodotti industriali rimanevano invenduti. Le aziende prima erano costrette a ridurre la produzione, poi a licenziare gli operai e infine, in molti casi, a cessare la loro attività.

Sia la crisi agricola sia la crisi industriale furono crisi di sovrapproduzione: esse vennero infatti causate dall’eccesso di merci immesse sul mercato e non, come nelle società preindustriali, dalla mancanza di beni. La Grande depressione non fu tuttavia un periodo esclusivamente negativo: al suo interno maturarono infatti innovazioni tecnologiche e organizzative destinate a consentire un nuovo grande balzo dell’industrializzazione a partire dagli ultimi anni del secolo.

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Le invenzioni e le nuove tecnologie
Negli anni fra il 1870 e il 1900 fecero la loro prima apparizione una seria di strumenti, di macchine, di oggetti d’uso domestico che sarebbero poi diventati parte integrante della nostra vita quotidiana: la lampadina e l’ascensore elettrico, il motore a scoppio e i pneumatici, il telefono e il grammofono, la macchina per scrivere e la bicicletta, il tram elettrico e l’automobile. Nel 1873 apparve il frigorifero, un anno dopo fecero la loro comparsa il ferro da stiro elettrico, la penna stilografica, la gomma per cancellare e la carta assorbente.

Nel 1876 lo scozzese Alexander Bell costruì il telefono, già però ideato dall’italiano Antonio Meucci; nel 1877 Edison brevettò il fonografo, che qualche anno più tardi fu trasformato in grammofono da Hans Berliner. Nel 1895 ci furono altri due avvenimenti fondamentali nella storia moderna delle invenzioni: l’italiano Guglielmo Marconi effettuò il primo esperimento di telegrafo senza fili e i fratelli francesi Lumière inventarono il cinema . Nel 1888 lo scozzese John Dunlop, utilizzando il processo di vulcanizzazione del caucciù, che è un processo di lavorazione della gomma, inventato dall’americano Charles Goodyear, costruì il pneumatico. L’invenzione del pneumatico , insieme con quella dei cuscinetti a sfere e con l’uso dell’acciaio, consentì la costruzione delle moderne biciclette . Nel 1880 fu applicata loro anche la catena, per trasmettere il moto dai pedali alla ruota posteriore.

 


La fabbricazione della cellulosa permise di compiere i primi passi nella produzione di materie plastiche. Non tutte le invenzioni trovarono un impiego pacifico; la dinamite , inventata dallo svedese Nobel, fu usata principalmente a scopo bellico, poiché in quegli anni erano necessari esplosivi più potenti per perforare le corazze delle navi che cominciavano ad essere costruite con l’acciaio. Il Novecento si aprì con un’invenzione che avrebbe trasformato il mondo; nel 1903 due americani fecero sollevare da terra un mezzo più pesante dell’aria( fino ad allora avevano volato solo gli aero stati, palloni gonfiati con aria calda o gas più leggeri dell’aria) ma soltanto nel 1911 fu costruito il primo aereo con una struttura coperta totalmente da una tela verniciata che permetteva di vincere la resistenza dell’aria.

La vera novità della Seconda rivoluzione industriale non fu tanto nelle conquiste della scienza, quanto nell’applicazione su sempre più larga scala delle scoperte ai vari rami dell’industria. Il legame che si veniva a creare tra scienza e tecnologia e tra tecnologia e mondo della produzione diventava sempre più stretto: scienziati di grande prestigio misero i loro studi a disposizione dell’industria, ingegneri, biologi, chimici e fisici divennero titolari o contitolari di imprese. Nessun settore produttivo rimase estraneo all’ondata di rinnovamento tecnologico degli ultimi decenni dell’800. Gli sviluppi più interessanti si concentrarono in industrie “giovani”, come quella chimica o come quel ramo dell’industria metallurgica dedito alla produzione dell’acciaio. L’impiego su vasta scala dell’acciaio fu uno dei tratti distintivi della nuova epoca; i pregi di questa solido e malleabile metallo erano conosciuti da tempo, ma gli elevati costi di produzione ne avevano limitato l’uso alle armi da fuoco, alle lame e agli strumenti di precisione. Con l’impiego di nuove tecniche di fabbricazione, fu possibile produrre acciaio in grandi quantità e a costi modesti. Da allora la produzione di acciaio crebbe a ritmi rapidissimi e questa lega metallica trovò infinite applicazioni nei campi più svariati. L’acciaio venne usato per le rotaie delle ferrovie, per le corazze delle navi da guerra, per gli utensili domestici e per le macchine industriali che divennero più precise, potenti e leggere. L’acciaio fornì anche le strutture per costruire grandi edifici e grandi ponti, come il Tower Building di New York, il primo palazzo in acciaio costruito nel 1889 e la Torre Eiffel, realizzata nello stesso anno in occasione dell’Esposizione universale di Parigi, alta 300 metri e destinata a diventare il simbolo più celebre dell’età dell’acciaio.

 


L’industria chimica era un’industria multiforme, essa abbracciava una grande varietà di produzioni: dalla carta al vetro, dai medicinali ai concimi, dai saponi ai coloranti, dagli esplosivi alla ceramica. La stessa metallurgia poteva essere considerata una branca della chimica applicata; fu infatti un processo chimico che permise, nel 1886, di ricavare l’alluminio dalla bauxite. La crescita delle nuove industrie fece aumentare la domanda di prodotti “intermedi”, destinati cioè a essere impiegati come reagenti chimici in altre lavorazioni. I più diffusi di questi prodotti erano l’acido solforico e la soda, usata come detergente e sbiancante e nella fabbricazione del vetro e nella siderurgia. Furono produzioni come quella della soda e dell’acido solforico a costituire la base per lo sviluppo dell’industria chimica, che allargò e diversificò l’area delle sue specializzazioni. Intorno al 1870 fu sperimentata per la prima volta la lavorazione dei coloranti artificiali e fra il 1889 e il 1892 furono realizzate in Francia e in Inghilterra le prime fibre tessili artificiali, derivate dalla cellulosa. Legato ai processi chimici fu lo sviluppo del settore alimentare; per l’industria alimentare la svolta fu rappresentata da un lato dall’invenzione di nuovi metodi per la sterilizzazione, la conservazione e l’inscatolamento dei cibi, dall’altro dallo sviluppo delle tecniche di refrigerazione.

 


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Il motore a scoppio, l’elettricità e il petrolio
Se la prima rivoluzione industriale si era fondata essenzialmente su un tipo di macchina, quella a vapore, e su una fonte di energia, il carbon fossile, la seconda fu caratterizzata dall’invenzione del “motore a scoppio”, o a combustione interna, e dall’utilizzazione “dell’elettricità”. Il motore a scoppio fu il risultato di una serie di studi e di esperimenti che videro impegnati, fin dagli anni ’50, scienziati di diversi paesi. Ma solo nel 1885 due ingegneri tedeschi Daimler e Benz riuscirono a montare dei motori a scoppio, più potenti e meno ingombranti di quelli a vapore, su autoveicoli a ruote, realizzando così le prime automobili; il combustibile usato era un distillato del petrolio che prese poi il nome di benzina. Nel 1897, un altro ingegnere tedesco, Rudolf Diesel, inventò il motore a gasolio, o nafta, che porta ancora il suo nome.



Gli esordi dell’automobile furono lenti ma questo sviluppo limitato fu tuttavia sufficiente a dare un impulso decisivo all’estrazione del petrolio, soprattutto nel Nord America dove, alla fine dell’800, era concentrata la metà della produzione mondiale. La diffusione dei prodotti petroliferi, usati anche come lubrificanti e come combustibili da riscaldamento e da illuminazione, era però ostacolata dagli alti costi di produzione: il prezzo del petrolio era dalle cinque alle dieci volte più alto di quello del carbone, che rimaneva il combustibile più diffuso. Tuttavia il primato del carbone e della macchina a vapore sarebbe stato presto soppiantato da una nuova e rivoluzionaria forma di energia: “l’elettricità”.

L’elettricità era oggetto di studio da oltre un secolo; i primi apparecchi elettrici, come la pila di Volta, risalivano ai primi decenni dell’800, ma si trattava ancora di curiosità scientifiche, non suscettibili di applicazioni pratiche. La prima applicazione su vasta scala si ebbe con lo sviluppo della telegrafia via filo. Fra il 1860 e il 1880, vennero realizzati dinamo e generatori, batterie capaci di immagazzinare grandi quantità di energia e motori elettrici che permettevano di trasmettere corrente elettrica a grandi distanze e di utilizzarla per l’illuminazione e il riscaldamento.

L’invenzione decisiva per lo sviluppo dell’industria elettrica fu la “lampadina”, ideata da Thomas Edison nel 1879. Nacquero così, agli inizi degli anni ’80 le prime centrali termiche, capaci di fornire energia elettrica a interi quartieri urbani e destinate soprattutto all’illuminazione privata. A partire dalla fine del secolo, l’energia elettrica cominciò ad essere usata anche per i mezzi di trasporto e per gli usi industriali. Di fronte alla richiesta sempre crescente di energia elettrica, si faceva strada l’idea di ricorrere per la produzione di corrente, anziché alle macchine a vapore, all’energia idraulica.



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Lo sviluppo dei trasporti
I trasporti nella seconda metà dell'Ottocento divennero molto più sviluppati e complessi. Il sistema ferroviario, uscito dalla fase pionieristica, ebbe un accrescimento senza precedenti; Tra il 1850 e il 1870 si costruirono in Europa circa 75000 Km di strade ferrate e parallelamente si potenziarono anche le comunicazioni via mare, dove i vecchi bastimenti di legno furono sostituiti da giganteschi scafi d’acciaio. Lo sviluppo delle ferrovie permise di raggiungere nuovi mercati per la vendita dei prodotti industriali e agricoli, alimentò una continua domanda di ferro e carbone, che erano le materie prime necessarie per costruire binari, locomotive e vagoni e per far funzionare le macchine a vapore. In alcuni paesi le ferrovie ebbero un incremento del 1000%, come negli Stati Uniti, dove si passò da 15000 km di linee ferroviarie a più di 150000 km.

L'enorme sviluppo del trasporto ferroviario rivoluzionò in breve tempo i commerci e la possibilità di movimento delle popolazioni interessate, divenendo a sua volta un potente elemento di accelerazione e moltiplicazione dello sviluppo economico delle aree raggiunte dal servizio.

La costruzione di ferrovie a raggio transcontinentale (come ad esempio la ferrovia New York - San Francisco, la trans andina tra il Cile e l'Argentina, la transiberiana Mosca - Vladivostok) ebbe un'enorme influenza nello scambio delle merci poiché si ridussero notevolmente i costi sino ad allora molto alti per il trasporto via terra. Inoltre in alcune delle più importanti città Europee ed Americane, si ebbe la costruzione delle prime metropolitane, fra le quali quelle di Londra e Parigi, che permetteva di spostarsi facilmente all'interno delle aree urbane, enormemente accresciutesi già dopo la prima rivoluzione industriale.



Per quanto riguarda il sistema navale, grazie allo sviluppo della metallurgia e all'introduzione dell'elica, si poterono costruire i primi scafi in ferro e successivamente in acciaio, che permisero la costruzione dei robustissimi “transatlantici”. Pian piano, le navi a vela vennero soppiantate da quelle a vapore grazie anche all'avvento dei moderni motori. Per i trasporti marittimi fu di enorme importanza la costruzione di canali come nel 1869 quello di Suez che in poco tempo determinò spostamento dei traffici tra l'Atlantico settentrionale e l'oceano Indiano. Nel 1895 fu completato il canale di Kiel che facilitò gli scambi tra Mar del Nord e il Baltico. Nel 1914 si aprì il canale di Panama che mise in immediata comunicazione l'Atlantico e il Pacifico.

In questo modo le economie dei vari stati nazionali cominciarono a divenire interdipendenti e sembrò realizzarsi il sogno degli illuministi che, basandosi sulla espansione del mercato, auspicavano il superamento delle barriere nazionali con la realizzazione del cosmopolitismo. La realtà si rivelò del tutto diversa: invece che al sorgere di un sentimento fraterno tra gli uomini si assisté al feroce scontro dei nazionalismi. L'invenzione della automobile, negli ultimi decenni del XIX secolo, si rivelerà di straordinaria importanza, con effetti rivoluzionari sulle abitudini e lo stile di vita dei paesi industrializzati; tali conseguenze, tuttavia, si avvertiranno in modo significativo solo a partire dalla diffusione di massa dell'automobile, che inizierà successivamente, nei primi decenni del XX secolo.



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Le nuove vie di comunicazione
Parallelamente ai trasporti, anche le comunicazioni si fecero più veloci e intense. La scoperta dell'elettromagnetismo e l'invenzione del telegrafo prima e del telefono poi, permisero le prime comunicazioni intercontinentali.

Questo tipo di comunicazione ebbe un ruolo decisivo per il graduale sviluppo dell'interdipendenza tra i vari stati del pianeta. Attorno agli anni quaranta dell’ 800, si svilupperà rapidamente in tutto il mondo il telegrafo elettrico Morse, che per la prima volta nella storia permetterà la comunicazione istantanea a distanza, e che darà luogo a notevoli sviluppi, fra cui la creazione delle prime agenzie di stampa, che raccoglievano e distribuivano notizie in tempi molto più rapidi che in passato.



Sarà soprattutto la successiva invenzione del telefono nel 1860 e la sua diffusione su larga scala che porteranno ad una vera rivoluzione nel campo delle comunicazioni, imprimendo in poco tempo uno sviluppo totalmente nuovo nelle interrelazioni sociali e commerciali tra gruppi e individui.

Nei primi anni del novecento, quindi, l'avvento della radio, avvierà una nuova era nel campo della informazione che porterà notevoli conseguenze anche in campo sociale.



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Urbanizzazione e trasmigrazioni continentali
Con la quasi sostituzione dell’industria all’agricoltura, che fino ad allora era stata la principale risorsa economica di molte nazioni, milioni di persone iniziarono a vivere e a lavorare in enormi centri industriali dove le condizioni erano discutibili e la maggior parte degli stabilimenti era male areata e male illuminata, il lavoro era spesso pericoloso, gli orari gravosi ed i salari molto scarsi. Peggio di tutti stavano però le donne ed i bambini, costretti a lavorare in condizioni pressoché di schiavitù. Per andare incontro alle necessità dell’industria furono introdotte delle innovazioni tecniche che permisero la nascita di grosse fabbriche che trasformarono in pochi decenni i borghi di campagna in fumanti centri industriali. I contadini e gli artigiani cercarono lavoro nel nuovo mondo industriale, divenuto ormai il carro trainante dell’economia.

Nei centri sorti intorno alle fabbriche la popolazione aumentò rapidamente a causa soprattutto dell’immigrazione interna dei contadini dalle campagne. A tutto ciò, però, non corrispose un adeguato e razionale sviluppo urbanistico; le città sorsero in modo caotico e si costituirono nuove abitazioni ovunque vi fosse spazio, causando così l’aumento smisurato ed incontrollato dei fitti. Le città industriali si trovarono così in pochi anni ad essere circondate da enormi periferie sub-urbane, tetre e malsane, specialmente nel periodo anteriore alle scoperte medico-scientifiche. La rapida diffusione di questi centri ne rese impossibile la pianificazione, l’igiene era pressoché sconosciuta e la sovrappopolazione favoriva sempre più la criminalità e le malattie, come la tubercolosi, l'antrace, la peste, la lebbra, la rabbia, la malaria.

Solo negli ultimi decenni del XIX secolo le amministrazioni delle grandi città iniziarono a pianificare interventi di ristrutturazione urbanistica su larga scala, che prevedevano talvolta anche l'abbattimento di interi quartieri fra i più vecchi e fatiscenti, per far posto a zone ricostruite secondo schemi urbanistici più razionali, rispondenti a canoni più moderni e funzionali. Fu proprio per la necessità di mettere ordine e poter controllare queste enormi caotiche aree urbane che fra l'altro si iniziò in tutti i paesi industrializzati ad introdurre sistematicamente i numeri civici nelle abitazioni e a regolamentare in modo più rigoroso lo sviluppo delle reti stradali, fognarie e dei servizi pubblici in generale.

Collegato alla rivoluzione dei trasporti e all’immigrazione interna dei contadini dalle campagne nacque il nuovo fenomeno sociale delle “grandi trasmigrazioni continentali”. Sin dagli inizi dell'Ottocento vi erano stati spostamenti in America e in Oceania di masse di popolazione europea da un continente. Il fenomeno si accentuò tra il 1880 e il 1914 quando milioni di emigrati specie dall'Italia meridionale, dalla penisola balcanica, dall'Europa orientale lasciarono le loro condizioni di vita semifeudale attirati dalle migliori condizioni economiche e dalla speranza di una vita migliore degli Stati Uniti in fase di grande sviluppo industriale dove il mercato richiedeva quella necessaria materia prima della manodopera che trovava impiego specialmente nell'edilizia e nelle grandi costruzioni stradali e ferroviarie.

Il fenomeno delle trasmigrazioni comportava sacrifici culturali dolorosi ma nello stesso tempo però permetteva a grandi masse di uscire dal loro isolamento feudale e partecipare alle forme di una moderna civiltà, contribuendo in pochi decenni al formarsi di società in gran parte multietniche, come quella degli Stati Uniti, dell'Argentina o dell'Australia.

 


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La produzione di massa e il “Taylorismo”
Alle accresciute dimensioni delle imprese si accompagnò un nuovo modo di produrre. Per venire incontro ai desideri di una larga massa di consumatori nel mondo, c’era bisogno di prodotti standardizzati, con caratteristiche sempre identiche, facilmente riconoscibili ovunque. Dopo il 1896, i prezzi, che erano stati sempre calanti a partire dal 1873, crebbero costantemente, e con essi crebbe anche il livello medio dei salari e il reddito pro-capite dei paesi industrializzati.

La crescita dei redditi determinò a sua volta l’allargamento del mercato: le industrie produttrice di beni di consumo e di servizi si trovarono per la prima volta a dover soddisfare una domanda che sempre più assumeva dimensioni di massa. Beni la cui produzione era stata fin allora assicurata solo dal piccolo artigianato o dall’industria domestica cominciarono a essere prodotti in serie e venduti attraverso una rete commerciale sempre più estesa e ramificata: cominciò allora la produzione di massa.

Le esigenze della produzione in serie per un mercato di massa spinsero le imprese ad accelerare i processi di meccanizzazione e di razionalizzazione produttiva. Nelle grandi fabbriche, a partire dal 1893 fu introdotto un nuovo sistema di organizzazione del lavoro messo a punto dall’americano Frederick W. Taylor, dal quale prese il nome di “taylorismo”. Il metodo di Taylor si basava sullo studio sistematico del lavoro in fabbrica, sulla rilevazione dei tempi standard necessari per compiere le singole operazioni e sulla fissazione, in base a essi, di regole e ritmi cui gli operai avrebbero dovuto uniformarsi , eliminando le pause ingiustificate e gli sprechi di tempo.

Il principio del taylorismo fu integralmente applicato nella “catena di montaggio”. La prima catena di montaggio fu introdotta nel 1913 nelle officine automobilistiche Ford di Detroit; la catena di montaggio fu un’innovazione rivoluzionaria che consentì di ridurre i tempi di lavoro, ma frammentando il processo produttivo in una serie di piccole operazioni, ciascuna affidata a un singolo operaio, rendeva il lavoro ripetitivo e spersonalizzato. Le tecniche del taylorismo assicurarono notevoli progressi in termini di produttività e permisero alle imprese che le adottarono di praticare una politica di salari relativamente alti; ma incontrarono una diffusa ostilità fra i lavoratori che si sentivano spossessati di qualsiasi autonomia, oltre che di qualsiasi orgoglio professionale, e vedevano subordinato il loro lavoro agli automatismi delle macchine.

 


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La classe operaia e la diffusione del “Marxismo”
Dopo la Grande depressione, molti contadini e artigiani avevano cambiato lavoro occupandosi nelle acciaierie, nelle miniere, nelle costruzioni edili. Alla fine dell’Ottocento, circa i due terzi della popolazione che lavorava nelle grandi città erano impiegati nelle industrie.

L’essere proletari, cioè guadagnarsi un salario lavorando con le proprie mani proprio per il fatto di avere dei figli, e quindi delle bocche da sfamare, divenne una condizioni sociale comune a milioni di uomini, che condividevano abitudini, stili di vita, progetti per il futuro. Era proletario, chi non disponendo di altro che della propria capacità di lavorare, trovava occupazione come salariato o bracciante nelle campagne (proletariato agricolo) o come operaio nelle fabbriche (proletariato industriale).

Il termine operaio indicava figure sociali diverse fra loro: era operaio l’artigiano costretto dalla concorrenza delle industrie a chiudere la sua bottega ed entrare in fabbrica, ma anche il contadino che aveva abbandonato la campagna ed erano operai anche le donne e i bambini. Nella fabbrica questa diversa provenienza dava luogo a una gerarchia e a forti disparità di condizioni: il salario e la stabilità occupazionale dell’operaio specializzato erano superiori a quelli del manovale comune, del minatore, dell’operaia tessile senza qualifica.

Tuttavia, pur con queste differenze, la classe operaia visse, nel periodo dell’industrializzazione, una comune condizione di miseria e di sfruttamento. I salari erano bassissimi, per i più al limite della sopravvivenza: si lavorava sei giorni alla settimana fino a 15 ore al giorno; i ritmi di lavoro erano massacranti, l’ambiente malsano e pericoloso, senza alcuna prevenzione; la ferrea disciplina di fabbrica, con i suoi orari, obblighi e punizioni, era pesante da sopportare soprattutto per chi aveva da poco lasciato la vita della campagna, ugualmente dura ma legata la ritmo naturale della giornata e delle stagioni, non a quello artificiale delle macchine.

Un altro elemento accomunava gli operai: l’insicurezza. Nessuno portando a casa la paga giornaliera, poteva dirsi sicuro che l’avrebbe ricevuta anche il giorno seguente. La malattia e l’infortunio significavano la fame: non esisteva alcuna forma di indennità o assicurazione sociale. La vecchiaia era uno spettro per tutti; chi non lavorava più e non poteva essere accolto in casa dai figli non aveva altra prospettiva che l’ospizio o la pubblica carità.

L’operaio viveva in una condizione di forte isolamento. La famiglia operaia abitava in case quasi sempre in rovina, prive di servizi igienici, nei quartieri più miserabili delle città. La classe operaia dovette crearsi forme nuove di comunità e di solidarietà: le società di mutuo soccorso, le leghe, i sindacati e tutte quelle organizzazioni cui gli operai diedero vita a partire dalla fabbrica per migliorare le proprie condizioni di vita e di lavoro.

Ben presto l’opinione pubblica borghese, le autorità cittadine, i legislatori si resero conto dei costi umani e sociali dell’industrializzazione. All’interno delle classe dirigenti, si diffuse la convinzione che fossero necessari provvedimenti per migliorare le condizioni dei lavoratori; queste classi portarono avanti la questione sociale e operaia come un pericolo che minacciava la vita collettiva. La questione sociale fu però anche il risultato della nascita e della diffusione di movimenti di protesta che vedevano come protagonisti gli operai stessi: infatti all’interno della classe operaia nacquero forme di ribellione nei confronti del nuovo sistema produttivo e delle sue regole.

Il fatto più preoccupante per le classi dirigenti era che gli operai maturarono ben presto la consapevolezza di doversi organizzare per difendere i propri diritti. Con l’industrializzazione si determinò una situazione nuova: gruppi di lavoratori sempre più consistenti vennero riuniti all’interno delle fabbriche e ciò diede loro la percezione di vivere una condizione comune e anche la consapevolezza di poter accrescere, organizzandosi, la propria forza. Secondo alcuni storici è possibile parlare di “classe operaia” solo dal momento in cui i lavoratori di fabbrica incominciarono ad acquisire la coscienza di appartenere alla medesima classe e di avere gli stessi obbiettivi di lotta, gli stessi interessi economici e politici, gli stessi valori.

Le condizione egualitarie che univano tra loro gli operai si rivelarono favorevoli al diffondersi delle teorie elaborate da Karl Marx. Pubblicato nel 1848 il “Manifesto del partito comunista” analizzò per la prima volta la situazione del proletariato come classe autonoma, condizione e risultato dello sviluppo economico capitalistico, che avrebbe dovuto essere rovesciato attraverso la lotta di classe.

Il marxismo auspicava una società senza classi da raggiungersi attraverso la “dittatura” del proletariato. Marx affermava che così come si era uguali in fabbrica lo di doveva essere nella società. Per combattere le disuguaglianze sociali, occorreva superare il sistema capitalistico e creare una società con un’economia tesa a soddisfare i bisogni di tutti gli uomini. Per Marx, infatti, il superamento della società capitalista sarebbe stato il prodotto sicuro del processo storico, indipendentemente dalla volontà degli uomini.

Era naturale nel funzionamento del sistema economico capitalistico, secondo Marx, la prospettiva dell’emancipazione della classe operaia dallo sfruttamento cui era sottoposta dalla borghesia capitalistica. La borghesia, al suo sorgere, aveva avuto un ruolo rivoluzionario in quanto aveva abbattuto il sistema feudale; poi però il suo sistema economico, il capitalismo, fondato sulla proprietà privata e sul profitto, aveva significato condizioni di oppressione, sfruttamento e miseria per le masse dei lavoratori. Era diventato un ostacolo al progresso dell’umanità, per rimuoverlo era necessario abolire la proprietà privata e istaurare il comunismo. Era questo il compito, secondo Marx, della classe operaia, una classe sociale giovane, nata con la rivoluzione industriale.

Nei Paesi dell’Est europeo il marxismo si diffuse nella sua versione più rivoluzionaria, mentre in Occidente si impose invece una versione più graduale e riformista, che si accontentava di ottenere riforme per tutelare i diritti degli operai. Intorno al 1890, i partiti socialisti si erano consolidati un po’ ovunque e i loro esponenti sedevano nei Parlamenti di vari Paesi europei. Erano tutti uniti in un’unica organizzazione mondiale: l’Internazionale.

La Prima Internazionale venne istituita nel 1864 a Londra, il suo scopo era il coordinamento tra le diverse correnti del movimento operaio, ma venne sciolta nel 1876 per contrasti tra socialisti e anarchici. Nonostante le differenze riconducibili alle diverse realtà nazionali, questi partiti presentavano degli obbiettivi comuni : il superamento del capitalismo, il pacifismo e la creazione di una sempre più ampia base di consenso tra le masse di lavoratori.

Nel 1889 venne fondata la Seconda Internazionale che si impose con un programma di trasformazione graduale della società (riformismo), sollecitando tutti i partiti che vi aderirono a battersi per la pienezza dei diritti politici degli operai e per la tutela del lavoro nelle fabbriche e nelle campagne.

 


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Una nuova fase del Capitalismo
Negli ultimi decenni dell’Ottocento sorse la tendenza alla concentrazione dell’attività produttiva, alle unioni e alle fusioni tra diverse società o fabbriche (trust) o agli accordi di mercato tra autonome imprese dello stesso ramo (cartelli).

Il capitalismo entrò allora in una nuova fase: mentre in tutto il periodo precedente la sua espansione si era basata sulla libera concorrenza, le maggiori industrie e le banche più potenti cominciarono ad acquistare un carattere monopolistico, con la conseguente riduzione o eliminazione della concorrenza. Questa nuova forma di capitalismo è caratterizzata dalla concentrazione del capitale industriale e finanziario, cioè dal fatto che la proprietà delle grandi imprese industriali è concentrata nelle mani di pochi imprenditori e il capitale bancario è controllato da pochi grandi istituti di credito.

Negli Stati Uniti il settore petrolifero e quello siderurgico furono i primi ad essere dominati da grandi complessi produttivi (Standard Oil e U.S. Steel), mentre in Germania lo stesso fenomeno avvenne nell’industria chimica (con alcune imprese tra cui la Bayer) e nell’elettromeccanica (Siemens e AEG).

Il fenomeno delle concentrazioni economiche fu dovuto a tre principali fattori. In primo luogo il fallimento, per effetto della crisi del 1873, di migliaia di aziende piccole e medie e il loro assorbimento da parte delle imprese più forti. In secondo luogo, l’intensificarsi della concorrenza internazionale che spingeva all’unificazione di imprese capaci di mantenere il controllo del mercato e alla stipulazione di accordi sui prezzi per limitare la competizione economica. Infine il fatto che i nuovi settori produttivi erano tutti ad alta intensità di capitale , cioè richiedevano grandi investimenti in macchinari e impianti, ciò comportava enormi finanziamenti da parte delle banche, che in molti casi finivano per controllare la proprietà delle imprese stesse.

Un ruolo decisivo in questo periodo, fu infatti svolto dalle istituzioni finanziarie . Solo le grandi banche potevano assicurare gli imponenti e costanti flussi di denaro necessari alla nascita e alla crescita dei colossi per i quali i profitti, per quanto elevati, non erano sufficienti a ricostituire il capitale di investimento. Fra banche e imprese si venne a creare uno stretto rapporto di intreccio: le imprese dipendevano sempre più dalle banche per il loro sviluppo e le banche legavano le loro fortune a quelle delle imprese. Questo intreccio fra industria e finanza fu definito dagli economisti marxisti col nome di “capitalismo finanziario”.

L’insieme di questi fattori contribuì ad accrescere la dimensione media delle imprese. Negli ultimi decenni del secolo prese avvio lo sviluppo della “grande industria”, che integrava alti flussi di produzione e migliaia di operai in stabilimenti di enormi dimensioni. Il passaggio dal capitalismo concorrenziale al cosiddetto capitalismo organizzato, cioè a un capitalismo che si dava strumenti per dirigere e organizzare la vita economica senza affidarsi esclusivamente alle regole del mercato, fu caratterizzato da un accresciuto intervento dello stato nell’economia e dall’intreccio sempre più stretto fra potere economico e potere politico.

In generale, il potere politico intervenne in favore delle industrie nazionali attraverso tre strade: la prima, quella del protezionismo: accogliendo le richieste dei produttori, quasi tutti gli Stati, abbandonarono il libero scambio e alzarono barriere doganali in difesa delle produzioni e dei mercati interni. Con questa scelta politica, per la prima volta gli Stati si interessavano direttamente ai problemi dell’economia. Fino ad allora, lo Stato non era mai intervenuto per regolare l’attività economica, lasciando campo libero alle imprese private. Con l’intervento dello Stato si cominciò a guardare all’attività economica anche per i benefici che potevano derivarne a tutta la collettività,non solo ai proprietari delle imprese. La seconda, quella del sostegno all’industria pesante ( siderurgica, meccanica, chimica), attraverso aiuti finanziari e ordinazioni pubbliche, sia nel settore civile sia in quello militare (navi e armi). La terza, infine, quella di utilizzare una politica estera aggressiva , orientata alla conquista di nuovi mercati e all’affermazione della potenza commerciale, militare e politica della nazione.

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